Conoscere perfettamente le tecniche del gokyo e del ne-waza non basta per ottenere la padronanza del judo. La pratica dei kata è in questo senso indispensabile unitamente a quella del randori. L’insieme di questo studio deve essere accompagnato da un allenamento serio praticato al fine di perfezionare tutti gli aspetti della tecnica, tanto sul piano fisico che su quello mentale, emotivo, spirituale e morale. Per favorire questo processo d’apprendimento, storicamente tutti i Maestri hanno trasmesso una quantità di consigli, sotto forma di frasi, aforismi o metafore, molto spesso pittoresche ma alle volte poco comprensibili. Molte di queste nozioni fanno oramai parte della cultura judoistica, ma non sempre la tradizione orale riesce a mantenere intatto il senso di un concetto, generando, alle volte, mal interpretazioni ed errori. Da un attento studio tecnico e didattico, che ha raccolto ed analizzato le più note di queste nozioni, ne è derivata l’eliminazione di parecchi falsi concetti ma anche e soprattutto la dimostrazione di certi principi e metodi specifici per edificare e consolidare una valida crescita judoistica. Le osservazioni che ne sono derivate riguardano molti concetti anche non espressamente propri del Judo, ma che in qualche modo, direttamente o indirettamente, ne fanno parte. Ogni disciplina ha delle sue caratteristiche peculiari che la differenziano dalle altre, ma delle volte il fine ultimo è lo stesso, e gli insegnamenti dell’una o dell’altra finiscono inevitabilmente per incontrarsi.

  • Portamento della testa
  • Sguardo e campo visivo
  • Respirazione
  • L’impiego dell’energia
    • Energia, stato mentale e spirito
  • Il KI ed il Kiai
  • La velocità

Portamento della testa

Basandosi sullo studio dei riflessi attitudinali, il Judoka deve sempre far attenzione a mantenere la testa ben eretta e di fronte al compagno d’allenamento o all’avversario. Durante una proiezione, la ruoterà nel senso dello sbilanciamento e farà rientrare il mento. Lo stesso accadrà durante la schivata o la resistenza ma la testa ruoterà nel senso opposto, raccolta tra le spalle con il mento attaccato al petto in caso di caduta.

Soltanto un principiante china la testa in avanti per osservare il movimento dei piedi: questa pratica è inammissibile da parte di una cintura nera. Per l’azione riflessa del labirinto dell’orecchio interno, spezza immancabilmente l’equilibrio del corpo.

Sguardo e campo visivo

Certi “Maestri” consigliano di fissare sempre gli occhi dell’avversario in un combattimento di Judo. Si tratta invece di un errore. Poiché, se prestigiosi testi di arti marziali (cosa che il Judo non è) lo consigliano formalmente, si tratta sempre di combattimenti alla sciabola, karate, lancia, ecc… Il che significa che gli avversari sono separati da una certa distanza e non sono impegnati in un corpo a corpo. In quest’ultimo caso, lo sguardo sarà portato all’altezza dello sterno o del collo e non fisserà nulla in particolare. Gli occhi cercheranno di cogliere globalmente la totalità del corpo dell’avversario. Si tratta di percepire piuttosto che vedere.

Respirazione

L’acquisizione del “fiato” è certo di primaria importanza. Nessun progresso è possibile senza un’eccellente forma respiratoria. Ogni Judoka deve potersi allenare per un tempo abbastanza lungo senza ansimare.

Un altro punto fondamentale è la padronanza del ritmo respiratorio coordinato agli attacchi ed alle difese (si studia attraverso i kata, si riporta nella pratica attraverso il randori, si applica all’estremo nello shiai). Perciò ogni attacco deve svolgersi nella maniera appropriata: inspirazione profonda, diaframmatica durante la percezione di un’apertura d’attacco; piccola espirazione rapida (20%) durante lo squilibrio che può essere accompagnata dal Kiai; immediatamente dopo, bloccaggio della respirazione seguito da kuzushi e kake (vedi Le fasi di una tecnica di proiezione nella sezione I fondamentali…). D’altra parte il miglior momento per l’attacco di fronte alla respirazione di Uke è quello in cui quest’ultimo inspira (l’ottimale, subito dopo la sua espirazione).

Per contro, in difesa la respirazione sarà immediatamente bloccata contraendo gli addominali, una leggera espirazione è molto utile per attenuare l’energia di un attacco o ammortizzare l’impatto di una caduta.

L’impiego dell’energia

Non appena è possibile, il Judoka deve comprendere che l’essenza della sua “Via” consiste nell’impiegare nella maniera più intelligente possibile l’energia sotto tutte le sue forme e in qualunque luogo. Questo efficace impiego non è sempre forzatamente economico, ma è sempre il più adeguato allo scopo cui si vuole giungere. Mediante la padronanza perfetta dell’impiego dell’energia, il Judoka comprende che questa efficienza è applicabile non soltanto per sconfiggere un avversario, ma anche per riuscire in qualunque azione fisica e mentale nella vita di tutti i giorni. Ma in quale modo il Judo può condurre ad un simile risultato? È innanzi tutto una questione di tempo e di progressione sapientemente studiata. Il principiante riapprende l’uso elementare del proprio corpo mediante gli spostamenti (shintai e tai-sabaki), le cadute (ukemi) e gli squilibri (kuzushi). Quindi l’apprendimento delle proiezioni ed immobilizzazioni lo conduce lentamente ad un maggior controllo dell’impiego del corpo. Nell’attacco come nella difesa, gli sarà allora utile conoscere i principali elementi di meccanica generale, le leve, la composizione delle forze, il momento di una forza, ecc… e applicarli allo studio e pratica delle tecniche di Judo. Il concetto di velocità giocherà un ruolo importante, così come lo studio delle variazioni del centro di gravità (vedi Posizione di equilibrio, disequilibrio e squilibrio del corpo umano nella sezione I fondamentali…). Senza diventare un fisico, il Judoka assimila le nozioni elementari di questi principi mediante la pratica regolare dell’allenamento seguito da un valido Maestro. A poco a poco, tutte le azioni sul tatami diventano razionali, efficaci ed automatiche. La tecnica si affina e nozioni più complete, come l’interazione dei gruppi muscolari, la forza d’inerzia, la forza centrifuga, i riflessi, possono essere assimilate con una più profonda comprensione dei fenomeni neuro-muscolari e puramente mentali. Quando i muscoli sono perfettamente esercitati, flessibili, forti e rapidi, è necessario impiegarli al massimo della loro efficienza ed allora lo spirito gioca un ruolo primario. Questa è d’altronde la tappa finale.

Lontana è l’idea di esporre nei dettagli tutti i punti enumerati in precedenza, ma certi elementi sono troppo importanti per la riuscita e la progressione di uno studio serio del Judo per poterli passare sotto silenzio:

  • L’applicazione di una forza terrà sempre conto del principio del braccio di leva. Il punto di applicazione sarà il più lontano possibile dal punto d’appoggio, cioè il braccio della leva sarà il più grande possibile. Più il braccio di leva è grande, più lo sforzo diminuisce.
  • Nel caso di una tecnica che utilizza soltanto il momento di una forza, come sasae-tsuri-komi-ashi, uki-otoshi, o-soto-otoshi, ecc… si tratterà di bloccare il più in basso possibile (piede) e di tirare il più in alto possibile (spalle). Nel caso di una coppia di forze (due forze applicate in senso contrario) come in o-soto-gari, hane-goshi, ecc… un elemento da ridurre al massimo è lo strisciare al suolo. Tori dovrà dunque applicare la trazione superiore (spalle) e far cadere il centro di gravità di Uke sul suo (cardine) al fine di applicare la forza interiore (piede o gamba) alla coppia di forza.
  • Parecchi elementi frenano l’azione di Tori ed egli dovrà tenerne conto per agire con efficacia. I più importanti sono la pesantezza, l’inerzia, l’attrito, le forze interne (muscolari, ossee, ecc…). Negli spostamenti di Uke questi diversi elementi giocano un ruolo importante nel momento in cui il baricentro di questi è situato sopra il centro del poligono formato dai piedi (superficie trapezoidale ottimale): la posizione è stabile, solida e difficilmente attaccabile senza grandi dispendi di energia. Ora, Uke deve immancabilmente portare il peso del corpo da una gamba all’altra per spostarsi, da cui lo spostamento del baricentro alzandosi ed abbassandosi. Quando le gambe sono divaricate e il busto è eretto, la base è ampia e il baricentro è centrato; quando un piede passa all’altezza dell’altro, la base viene ridotta al minimo e il baricentro si trova nel punto più critico. La posizione è allora precaria e facile da sbilanciare senza grande sforzo. Si farà dunque attenzione ad applicare un attacco sull’avversario in questa posizione poco stabile, facile da spezzare come tempo e sforzo.
  • Per quanto riguarda il principio “spingete se vi tirano e tirate se vi spingono”, sarà utile approfondire questo punto di vista e sapere in quale modo i Maestri lo applicano realmente. In primo luogo, non si tratta di tirare l’avversario non appena inizia a spingervi, ma di arretrare più lontano e più in fretta di quanto egli desiderasse. Lo stesso, se l’avversario tira, avanzate più di quanto pensasse. In secondo luogo, la reazione “flessibile” all’attacco deve essere molto rapida. Occorre cedere nell’istante in cui l’avversario concepisce l’attacco e comincia la sua azione. È così che un Maestro attaccare positivamente prendendo l’iniziativa, mentre in realtà il suo avversario si apprestava ad attaccare egli stesso!
  • Infine, occorre sempre cedere all’azione dell’avversario, non in linea retta, ma in cerchio. Per agire in tempo, è necessario avere almeno la stessa rapidità della velocità d’attacco dell’avversario. Ora, cedere in linea retta è un movimento di traslazione molto più lento della rotazione. Inoltre, in quest’ultimo caso, il baricentro del corpo praticamente non si sposta. Occorre dunque applicare il principio della palla, di cui il Maestro Kyuzo Mifune è ardente promotore. Questo principio insegna che bisogna identificarsi, tanto nell’attacco quanto nella difesa, con una palla. Spingete una palla, essa ruota e arretra, tiratela, piroetta e avanza. Se potesse muoversi da sola nel momento della vostra azione e ruotare su se stessa, scivolereste su di lei, senza poterla spostare. Il vostro corpo, con molto esercizio, può diventare una palla che si muove da sola! Il principio resta valido per l’attacco: ruotate sotto il centro di gravità del vostro avversario e lo fate girare intorno al vostro corpo. Il sommo della perfezione consiste nell’unire il principio “ruotante”, “sfuggente” della palla ad una grande velocità d’azione autonoma. Per riuscirvi, occorre, da una parte, perfezionare lo shintai e in particolare il tai-sabaki e, d’altra parte, aumentare la prontezza dei riflessi. Ma, se la tecnica e l’allenamento sono indispensabili per riuscirvi, l’attitudine mentale adeguata è più importante ancora.

Energia, stato mentale e spirito

L’armonia perfetta tra mente e corpo è lo stato ideale del Judo. Ogni Judoka dovrà adattarvisi progressivamente prima di aver preparato il proprio corpo a questo stato spirituale eccezionale. Non soltanto risolverà il più presto possibile i suoi problemi di irrigidimento, paura e altri atteggiamenti inibitori, ma si sforzerà di non accordare un’importanza troppo grande alle sue azioni e a quelle degli avversari. Manterrà uno spirito vigile, attento ad ogni cosa, ma senza privilegiarne alcuna. Sarà presente in ogni istante, aperto a tutto quanto può accadere, concentrato ma rilassato. Lo spirito flessibile, fluido come l’acqua, ricettivo, che si adatta a tutte le situazioni, sarà tuttavia inafferrabile. Ad ogni azione dell’avversario, il Judoka deve opporgli il vuoto, il nulla. Con un simile stato mentale (e fisico), tutte le schivate, ma anche tutti gli attacchi divengono possibili.

Il Ki ed il Kiai

Ki

Un dizionario giapponese definisce Ki come mente, spirito o cuore. Vi sono elencate centinaia d’espressioni in cui è usata la parola Ki, per la maggior parte modi correnti per esprimere stati d’animo, tipi d’atteggiamento o carattere.

Nelle discipline e medicina orientali, la parola Ki sta ad indicare una forma sottile d’energia. Ki è la forza vitale, una fonte interna d’energia. Come Zen e Satori il termine Ki è diventato negli ultimi tempi d’uso comune nelle lingue occidentali. Tuttavia, mentre sono stati scritti molti libri sullo Zen per gli occidentali, pochissimi hanno trattato l’argomento del Ki. I concetti profondi sono difficili da definire ed in ogni caso anche una definizione accurata non può sostituire l’esperienza diretta nell’arrivare ad una migliore comprensione del Ki.

La parola Ki deriva dal concetto originario cinese di Chi o Qi, introdotto in occidente con l’agopuntura e il T’ai Chi Ch’uan. Ma l’antico modo di pensare cinese nei riguardi della vita è così lontano dal nostro che può essere di scarsa utilità in riferimento allo studio del Ki.

Alcuni ricercatori hanno tentato di soddisfare l’esigenza della mente moderna d’avere prove tangibili di ciò che è impercettibile. La fotografia a raggi infrarossi e foto scattate in un campo magnetico ad alta frequenza sembrano rivelare un’immagine dell’aura (umana). Tracciati di resistenza epidermica ad elettricità a basso voltaggio sembrano seguire i meridiani dell’agopuntura per indicare la direzione del flusso Ki. Ma nessuna di queste ricerche ha veramente attirato l’attenzione dell’ambiente scientifico. I primi filosofi occidentali tentarono senza successo di provare matematicamente l’esistenza di Dio, tuttavia la mente ha sempre eluso ogni tentativo di esplorare e definire la propria essenza.

È molto più facile dimostrare il Ki che cercare di misurarlo o contenerlo. Esso opera in accordo a principi definiti. La sua azione lascia tracce fisiche che possono venir facilmente riconosciute. Per maggior chiarezza, si può assumere come definizione operativa la seguente:

Il Ki è un’energia universale, capace di infinita espansione e contrazione, che può essere diretta, ma non contenuta dalla mente.

Il Ki non può essere percepito direttamente dai sensi o misurato con una macchina. Tuttavia esso non è soltanto un concetto. È una forza reale che è possibile percepire intuitivamente e dirigere mentalmente. Pur vivendone sempre a contatto e dipendendo dall’aria che respiriamo, raramente la notiamo o apprezziamo la sua importanza. Così come l’aria e l’acqua, il Ki è la fonte della nostra vitalità. È quella qualità misteriosa che distingue una persona sana da una malata, una viva da una morta. Il nostro Ki si indebolisce quando non arriviamo a comprenderne la natura originaria. Sebbene ogni frammento di prova scientifica indichi l’unità di mente e corpo, ci comportiamo come se fossero separati. La vecchia nozione filosofica dell’uomo come uno spirito all’interno di una macchina può essere fuori moda, ma non del tutto sbagliata. Il modo migliore di rafforzare il Ki è capire e praticare l’unità di corpo e mente.

Kiai

La parola giapponese Kiai viene tradotta a volte come grido o urlo. Il Kiai non implica un’emissione di voce, così come invece i film orientali di arti marziali hanno reso popolare. La parola Kiai significa letteralmente congiungimento o unione del Ki (con il Ki). In questo senso è possibile anche un Kiai silenzioso. Ogni emissione di voce con il Ki è Kiai, sia alta che bassa, sia parlando che gridando. Il segreto del Kiai è di estendere il Ki con forza prima di parlare e non interferire con la voce producendo tensione nella gola.

Alcuni genitori ed insegnanti rimproverano ripetutamente i bambini e poi si lamentano che le loro parole “entrano da un orecchio ed escono dall’altro”. Per la verità, nella maggior parte dei casi le loro parole non entrano affatto. Se non c’è Ki a dare alle parole un potere penetrante, queste non hanno impatto. Non è di alcun beneficio reagire al comportamento di un bambino con una mente superficiale e irritata. Incapaci di controllare se stessi, molti adulti non riescono a controllare i bambini o i giovani e a guadagnarsi il loro rispetto. Sia che sgridiate un bambino, sia che raccontiate una storia ad un amico o facciate un discorso in pubblico, coordinate mente e corpo prima di aprire la bocca. Allora le vostre parole avranno il massimo impatto.

Ci si può concentrare sul Kiai emettendo un suono mentre si visualizza un’immagine penetrante. Il suono “i – iai – i”  è molto efficace per concentrarsi nel passaggio del Ki attraverso un oggetto. Il suono inizia dall’addome, si espande, poi si affina, si concentra di nuovo come una lunga lente assottigliata. Se lo effettuate senza rilassarvi completamente, vi causerà soltanto un gran mal di gola. Non esagerate nella pratica del Kiai, o sforzerete troppo la voce. L’intento non è nel volume. Lo scopo del Kiai è ottenere un effetto di purificazione e l’unità mente-corpo in un solo istante. Dovete sentire il movimento del Ki come una folata di vento che passa su di voi e va oltre. Lasciate che la voce vi sia trascinata dentro. Il silenzio che segue un buon Kiai è ben distinto. Non disturbatelo con parole insulse o movimenti.

È tradizione ricordare la leggendaria capacità detenuta dai samurai, che con il Kiai potevano bloccare una persona sul loro cammino.

La velocità

La velocità concorre al miglior impiego dell’energia. In ogni azione, la velocità d’esecuzione può globalmente decomporsi in due fasi:

  • preparazione (percezione, giudizio e decisione);
  • esecuzione (trasmissione e mobilizzazione).

La fase di preparazione si compone in (un atto cosciente):

  • percezione di un segnale esterno o interno (attacco dell’avversario o desiderio di superarlo);
  • sua interpretazione (analisi dello squilibrio e ricerca di una posizione o contropresa);
  • scelta e decisione della risposta (una tale tecnica da eseguire in una tale maniera per…).

La fase d’esecuzione si compone di:

  • trasmissione neuro-muscolare (la tecnica scelta);
  • contrazione neuro-muscolare di partenza e adattamento durante l’azione.

Analizzando le diverse parti dell’atto cosciente, constatiamo che le tre fasi di preparazione passano per il cervello il quale trasmette gli stimoli necessari ad agire. Un allenamento adeguato può ridurre il tempo di percezione in una proporzione soddisfacente. Il tempo di analisi, di scelta e di decisione può essere praticamente ridotto a nulla grazie all’acquisizione di un riflesso condizionato. Vale a dire che si crea una catena di cellule nervose che vanno dagli organi recettori agli organi motori, senza far intervenire la coscienza. Per riuscirvi, l’allenamento intensivo è indispensabile. Ma la catena in tal modo creata (sempre complessa) può essere più o meno lunga. Questa struttura dipende dal cammino e dalle svolte che le cellule nervose interessate dal segnale ricevuto (trazione, spinta, colpo, ecc…) fanno compiere a questo (durante l’interpretazione, la scelta e la decisione) fino ai nervi motori. Certi avranno il ruolo di un semaforo verde e il messaggio passerà rapidamente; altri saranno semafori rossi e il messaggio, arrestato, verrà deviato. Questi semafori verdi e rossi sono tutti i pensieri consci o inconsci che dirigono la nostra vita. Appare chiaro che il ruolo dello spirito sullo stato mentale è importante. Anche se il Judoka trasforma l’essenziale del suo bagaglio tecnico in riflessi condizionati, questi contano sempre molto, ma avranno un rendimento ottimo soltanto quando lo stato mentale, cosi come lo stato fisico, sarà ben esercitato, flessibile, rapido e privo di ogni handicap (inibizioni, paure, complessi, ecc.). Qui il ruolo del Maestro sarà molto delicato, ma preponderante. Per quanto riguarda le fasi di esecuzione propriamente dette, l’allenamento fisico, il randori e i kata contribuiscono in gran parte a ridurre il tempo di trasmissione nervosa e il tempo di contrazione muscolare.